Azione di adempimento nel processo amministrativo. Il Tar Lombardia ne riconosce l’ammissibilità

T.A.R.

Lombardia – Milano

Sezione III

Sentenza 8 giugno 2011, n. 1428

N. 01428/2011 REG.PROV.COLL.
N. 01234/2010 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia

(Sezione Terza)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 1234 del 2010, integrato da motivi aggiunti, proposto da:
MAURO ***, rappresentato e difeso dagli avv.ti Maria Cristina Colombo e Giacomo Nicolucci, presso il cui studio è elettivamente domiciliato in Milano, via Durini n. 24;

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, rappresentato e difeso dall’Avvocatura dello Stato, presso i cui uffici è domiciliato ex lege in Milano, via Freguglia, 1;

per l’annullamento,

– del provvedimento n. 333.D/69309 del Ministero dell’Interno – Dipartimento della pubblica sicurezza – Direzione centrale per le risorse umane, recante datato 20 gennaio 2010, notificato al ricorrente il 29 marzo 2010, attraverso il quale è stata respinta la richiesta di trasferimento ex art. 55 d.p.r. 335/82;

– del provvedimento n. 333.D/69309 del Ministero dell’Interno del 16.01.2010;

– del provvedimento n. 333.D/69309 del Ministero dell’Interno del 28.05. 2008;

– (con motivi aggiunti depositati il giorno 11 ottobre 2010), del provvedimento n. 333.D/69309, del Ministero dell’Interno – Dipartimento della pubblica Sicurezza, adottato il 5 agosto 2010 e notificato al ricorrente il 7 agosto 2010;

– nonché di ogni atto presupposto, connesso e consequenziale;

Visti il ricorso, i motivi aggiunti e i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio dal MINISTERO DELL’INTERNO;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 2 marzo 2011 il dott. Dario Simeoli e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO

1. L’agente della Polizia di Stato MAURO ***, in servizio presso la Questura di Milano, ha presentato, in data 29 giugno 2009, istanza di trasferimento per gravi motivi familiari ai sensi dell’art. 55, comma 4, del D.P.R. 335/82 presso qualsiasi Ufficio o Reparto sito nella città di Pescara e Provincia, per avvicinarsi al proprio nucleo familiare abitante in Ortona (CH).

1.1. Con atto, recante la data del 20 gennaio 2010 e notificato al ricorrente il 29 marzo 2010, l’amministrazione ha rigettato l’istanza, rinviando per la motivazione al contenuto dei dinieghi precedentemente formulati sulle istanze del 27 dicembre 2007 e del 23 luglio 2008.

1.2. Con ricorso depositato il 3 giugno 2010, il sig. *** ha impugnato il provvedimento in epigrafe, lamentando violazione e falsa applicazione della l. 241/90 e dell’art. 55 d.P.R. 24 aprile 1982, n. 335 ed eccesso di potere sotto diversi profili, chiedendo altresì al Tribunale adito di voler ordinare il trasferimento presso qualsiasi ufficio o reparto della Polizia di Stato collocato nelle competenze territoriali delle questure di Chieti o Pescara o, in subordine, presso altro ufficio o reparto comunque ravvicinato presso la città di Ortona (CH).

Si è costituita in giudizio l’amministrazione resistente, chiedendo il rigetto del ricorso.

1.3. Con ordinanza del 10 giugno 2010, il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia “rilevato che il provvedimento impugnato non contiene una motivazione adeguata ad evidenziare perché i fatti dedotti dal ricorrente sono stati ritenuti non sufficienti ad integrare il requisito delle gravissime ed eccezionali situazioni personali contemplato dalla fattispecie sul trasferimento ad altra sede ai sensi dell’art. 55 d.P.R. 24 aprile 1982, n. 335”, ha accolto il ricorso ai fini del riesame.

1.4. In esecuzione della predetta ordinanza, con provvedimento n. 333.D/69309 del 5 agosto 2010, notificato il 7 agosto 2010, l’amministrazione ha nuovo negato il trasferimento.

1.5. Con ricorso per motivi aggiunti depositato l’11 ottobre 2010, il ricorrente ha impugnato anche il provvedimento da ultimo citato.

1.6. Nella camera di consiglio del 4 novembre 2010, il Tribunale “ritenute le esigenze del ricorrente apprezzabili favorevolmente e adeguatamente tutelabili con la sollecita definizione del giudizio nel merito”, fissava per la trattazione di merito del ricorso l’udienza pubblica del 3 marzo 2011.

1.7. Sul contraddittorio così istauratosi, la causa è stata discussa e decisa con sentenza definitiva all’odierna udienza.

DIRITTO

I. La pretesa del ricorrente è fondata nei termini che seguono.

I.1. Sono incontestate tra le parti (e, pertanto, escluse dal thema probandum) le seguenti circostanze: – che il genitore del ricorrente risulta affetto da “sindrome ipocinetica da paraparesi” ed è soggetto ad “incontinenza sfinterica con catetere vescicale a permanenza”; – che il medesimo genitore, ai sensi della legge 104/1992, è stato accertato essere persona handicappata con situazione di gravità, con impedimento permanente delle capacità motorie (come attestato dalla Commissione di prima istanza della ASL di Chieti, con certificazione del 25 luglio 2007); – che il ricorrente è figlio unico e che la di lui madre soffre di disturbi depressivi connessi ai disagi giornalieri conseguenti alla predetta situazione familiare (cfr. documentazione medica in atti).

I.1 E’ utile, inoltre, preliminarmente precisare che l’istanza si fonda sull’art. 55, comma 4, d.P.R. 24 aprile 1982 n. 335 (recante l’ordinamento del personale della Polizia di Stato che espleta funzioni di polizia), alla cui stregua “il trasferimento ad altra sede può essere disposto anche in soprannumero all’organico dell’ufficio o reparto per gravissime ed eccezionali situazioni personali”.

II. Tanto premesso, il Collegio ritiene, in primo luogo, di dover confermare la valutazione, compiuta in sede cautelare avverso il diniego impugnato con il ricorso introduttivo. Il comportamento dell’amministrazione appare irrimediabilmente affetto da insufficienza ed irragionevolezza della motivazione. Quest’ultima, nonostante l’istanza del ricorrente fosse corredata di nuovi elementi di documentazione, è operata tramite il mero rinvio al contenuto dei precedenti dinieghi del 28.5.2008 e del 16.01.2009, secondo cui la situazione rappresentata dall’istante non consentirebbe “valutazioni in deroga ai criteri ordinari che disciplinano la mobilità a domanda” di cui alla circolare interna n. 333 dell’8 aprile 2003.

Orbene, in primo luogo, è del tutto generica l’affermazione di avere valutato gli elementi addotti a sostegno dell’istanza e dell’insussistenza dei presupposti per il suo accoglimento, senza indicare concrete ragioni di fatto o giuridiche a supporto della determinazione adottata; in secondo luogo, il richiamo alla circolare 8 aprile 2003 è del tutto inconferente, riferendosi quest’ultima alle diverse ipotesi di mobilità a domanda, incentrata essenzialmente sui presupposti dell’anzianità di servizio e non ai trasferimento giustificati dalle circostanze di carattere eccezionale ex art. 55, comma 4, d.P.R. 24 aprile 1982 n. 335. Si osserva, inoltre, come non vengano specificate eventuali esigenze di servizio ostative all’accoglimento dell’istanza (né con riguardo alla scopertura che si sarebbe potuta verificare nell’ufficio di provenienza, né con riguardo alla condizione delle sedi indicate per il riavvicinamento); alcuna parola, altresì, viene spesa al fine di evidenziare per quale motivo i fatti dedotti dal ricorrente a sostegno della sua domanda sarebbero non sufficienti ad integrare il requisito delle gravissime ed eccezionali situazioni personali contemplato dalla fattispecie sul trasferimento ad altra sede ai sensi dell’art. 55 d.P.R. 24 aprile 1982, n. 335.

III. Sono fondate, inoltre, anche le censure articolate con i motivi aggiunti avverso il successivo diniego formulato, in esecuzione dell’istanza cautelare propulsiva del Collegio. Si legge questa volta che la posizione del sig. *** sarebbe stata rivalutata attraverso l’ausilio della circolare INPS n. 133/2000 (recante indicazioni in ordine ai benefici a favore delle persone handicappate, a seguito della modifiche introdotte dagli artt. 19 e 20 l. n. 53/2000 alla l. n. 104/1992, art. 33); in particolare, non rientrando la madre del ricorrente in alcuna delle categorie dei soggetti ritenuti non idonei per la loro condizione a prestare assistenza al marito disabile, non sarebbero stati riscontrati i presupposti per l’applicazione dei benefici previsti dall’art. 55, comma 4, del d.P.R. 335/82.

Sennonché, in disparte la questione se la menzionata circolare sia o meno stata superata dalla successiva n. 90/2007, anche tale richiamo appare del tutto inconcludente rispetto al contesto normativo interessato (il d.P.R. 335/82). La circolare n. 133, infatti, nel fare applicazione dell’art. 33, commi 1, 2, 3 e 6 della legge n. 104/92, si riferisce alla concessione dei permessi retribuiti dal lavoro, i quali nulla hanno a che vedere con la fattispecie del trasferimento. Inoltre, qualora pure il ricorrente avesse invocato il beneficio dei permessi in forza dell’articolo 33 della legge 104, l’amministrazione non avrebbe potuto rifiutarli, semplicemente motivando la presenza di altro genitore non invalido (la madre) nel nucleo familiare: a questo riguardo, la Suprema Corte (Cass., sez. lav., n. 7701/2003) ha censurato l’interpretazione dell’art. 33 della legge 104/92, sostenuta in precedenza dall’INPS, secondo cui la presenza in famiglia di altra persona che sia tenuta o possa provvedere all’assistenza del parente con disabilità in situazione di gravità escluderebbe il diritto ai tre permessi mensili retribuiti, affermando per contro il seguente principio: “non par esservi dubbio che lo spirito della legge sia quello di non lasciare il minore gravemente handicappato in balia di se stesso neanche momentaneamente e privo di affetto ad opera di chi lo possa assistere convenientemente anche dal punto di vista materiale. Se questo è lo scopo della legge, ove tale convenienza non sia raggiunta, come non è raggiunta ove il congiunto non lavoratore debba provvedere da solo all’incombenza, un’interpretazione conforme agli scopi della legge pretende che un’altra persona possa sostituire almeno momentaneamente l’avente diritto originario. Orbene, se questa seconda persona è un lavoratore appare ovvio e necessario che possa godere di brevi permessi retribuiti”. Con la sentenza n.13481 del 20.07.2004, la Suprema Corte ha ulteriormente confermato che “né la lettera, né la ratio della legge escludono il diritto ai permessi retribuiti in caso di presenza in famiglia di persona che possa provvedere all’assistenza”. Non a caso, sulla base di orientamenti, l’INPS (con la circolare n. 90/2007) ha rivisto le precedenti indicazioni fornite alle strutture territoriali in merito alla concessione dei benefici previsti dai commi 2 e 3 dell’articolo 33 della legge n. 104/92, ispirandosi a nuovi criteri.

IV. Entrambi i dinieghi opposti all’istanza di trasferimento (impugnati, rispettivamente, con il ricorso introduttivo e con i motivi aggiunti) sono illegittimi e, pertanto, devono essere annullati. A questo punto, il Collegio deve verificare l’ammissibilità e la fondatezza della domanda del ricorrente con cui questi chiede al Giudice di ordinare all’amministrazione il trasferimento presso qualsiasi ufficio o reparto della Polizia di Stato collocato nelle competenze territoriali delle questure di Chieti o Pescara o, in subordine, presso altro ufficio o reparto comunque ravvicinato presso la città di Ortona (la richiesta, per quanto topograficamente collocata nelle conclusioni relative alla istanza cautelare, si riferisce, come si evince dalla piana lettura del ricorso, anche alla pronuncia di merito).

IV.1. In particolare, si tratta di verificare: quali vincoli conformativi astringano la pubblica amministrazione a seguito dell’annullamento giurisdizionale di due successivi dinieghi sulla medesima istanza pretensiva; se, ed in presenza di quali presupposti, sia possibile condannare la pubblica amministrazione all’adozione dell’atto cui il ricorrente aspira.

V. La questione se, dopo l’accertamento giurisdizionale della illegittimità di un diniego su di una istanza, l’amministrazione possa negare nuovamente al ricorrente il bene della vita a cui il ricorrente aspira in base ad accertamenti o valutazioni che sarebbero potuti essere già compiuti nell’originario procedimento amministrativo, ovvero se ne consegua il vincolo conformativo di accordare la richiesta del cittadino, si iscrive ne quadro dei rapporti tra gli effetti della sentenza ed il fluire della attività giuridica amministrativa.

V1. L’opinione tradizionale escludeva di poter riconnettere alla sentenza amministrativa l’effetto di imporre una disciplina del rapporto tra amministrazione e cittadino “sostitutiva” della disciplina dettata dall’atto annullato. Anche quando si condivideva la natura sostanziale dell’interesse portato dal cittadino istante, si reputava che il Giudice conoscesse del rapporto tra amministrazione e cittadino solo attraverso lo “schermo” del problema di validità dell’atto amministrativo. Tale impostazione, alla cui stregua la soluzione della crisi di cooperazione tra Autorità e cittadino non approdava alla risoluzione in modo positivo e sostanziale del conflitto bensì si arrestava all’accertamento parentetico del profilo esteriore dell’atto, trovava conforto sia nella lettera dell’art. 45 t.u. Cons. St., secondo cui “la sentenza amministrativa fa salvi gli ulteriori provvedimenti dell’amministrazione”, sia nella collocazione istituzionale (“nell’amministrazione”) di un giudice il cui intervento non poteva precludere la persistente disponibilità in capo all’Autorità della disciplina dell’assetto degli interessi pubblici ed individuali. Tale “concorrenza” tra potere amministrativo e potere giurisdizionale era, altresì, sottolineata dal fatto che l’esecuzione della sentenza doveva avvenire “in via amministrativa” (art. 88 reg. proc. Cons. St.), quindi non negli stessi termini in cui il comune cittadino è soggetto al giudicato civile.

V.2. L’ordinamento processuale amministrativo, tuttavia, si è progressivamente affrancato dal paradigma del mero accertamento giuridico di validità dell’atto. Si tratta di un percorso che ha visto lungamente confrontarsi, da un lato, la visione che concepisce il giudizio amministrativo come strumento di garanzia della legalità della azione amministrativa (e, conseguentemente, intende l’interesse legittimo come “regola di coesistenza”, volta a conciliare l’interesse privato con quello pubblico); dall’altro, l’idea di una giurisdizione preordinata alla tutela di pretese sostanziali.

V.3. Il primo passo, stante l’insufficienza di una tutela soltanto caducatoria degli emergenti interessi pretensivi, è stato quello di superare i “limiti” dell’annullamento postulando, accanto all’effetto demolitorio della sentenza, anche quello conformativo e ripristinatorio. Il giudice, si è affermato, quando accerta l’invalidità dell’atto e le ragioni che la provocano, stabilisce quale è il corretto modo di esercizio del potere e fissa la regola alla quale l’amministrazione si deve attenere nella sua attività futura. Quanto più la sentenza è in grado di “convertire” l’insieme delle circostanze relative all’esercizio concreto di un dato potere in un vincolo per l’Autorità, tanto più l’azione amministrativa successiva alla sentenza rappresenta non la manifestazione di un potere “proprio” quanto la sua mera esecuzione.

Sennonché, anche quando il contenuto ordinatorio della sentenza di accoglimento (di per sé variabile in relazione al tipo di vizio riscontrato ed al tratto di potere dedotto in giudizio) consentiva una ampia definizione della fattispecie sostanziale (giungendo, talvolta, finanche a prefigurarne l’assetto finale), esso mai poteva tradursi in un espresso dispositivo di condanna, e ciò pur ammettendosi l’insorgere di un obbligo pubblicistico in capo alla p.a. di ripristinare lo status quo ante e di conformarsi alle regole di azione statuite. La “regola implicita, elastica, incompleta” della pronuncia sarebbe potuta divenire titolo esecutivo (ovvero, statuizione concreta dei tempi e modi per adempiere all’obbligo) soltanto “progressivamente” nella successiva sede del giudizio di ottemperanza.

Invero, erano ragioni di equilibrio istituzionale (sintetizzate nella formula di permanente salvezza del potere amministrativo), e non certo di carattere teorico o tecnico giuridico, ad imporre che, non in prima, ma soltanto in seconda battuta, si potesse ottenere tutela specifica dell’interesse pretensivo. Era, tuttavia, di comune esperienza quanto l’applicazione di tale regola portasse con sé il grave inconveniente di dilatare sensibilmente i tempi di definizione giudiziale della vicenda: difatti, ammessa la possibilità per l’amministrazione di reiterare più volte una stessa pronuncia muovendosi negli interstizi lasciati liberi dalla sentenza, la legittima aspirazione del cittadino, a vedere compiutamente definite tutte le chance di soddisfazione del suo interesse finale, doveva scontare l’introduzione di un indefinito numero di giudizi di cognizione prima di poter essere completamente soddisfatta; inoltre, a causa della non semplice identificazione dei presupposti per il giudizio di ottemperanza, talvolta il ricorrente vittorioso, in presenza di atti successivi alla sentenza di cognizione, poteva essere costretto a proporre ricorso per ottemperanza e, insieme, ricorso di legittimità.

V.4. Ben si comprende, a questo punto, perché il comune obiettivo delle successive tendenze legislative e giurisprudenziali sia stato quello di far convergere nel giudizio di cognizione, per quanto possibile, tutte le questioni dalla cui definizione possa derivare una risposta definitiva alla domanda del privato di acquisizione o conservazione di un certo bene della vita. Prima dell’entrata in vigore del codice del processo, vanno citati almeno i seguenti sviluppi: – la combinazione di ordinanze propulsive e motivi aggiunti avverso l’atto di riesercizio del potere hanno consentito di focalizzare l’accertamento, per successive approssimazioni, sull’intera vicenda di potere; – è divenuta pacifica la possibilità per il giudice di spingersi “oltre” la rappresentazione dei fatti forniti dal procedimento, nella convinzione che quella degli apprezzamenti tecnici non sia un’area istituzionalmente “riservata” alla pubblica amministrazione, giacché ciò che è precluso al giudice amministrativo è soltanto il giudizio di valore e di scelta che “specializza” la funzione amministrativa, mentre l’interpretazione e l’accertamento dei presupposti della fattispecie di cui il potere è effetto spetta al giudice; – le nuove tecniche di sindacato, punto di emersione della “amministrazione di risultato” e della acquisita centralità che il bene della vita assume nella struttura dell’interesse legittimo, hanno indotto il giudice ad un vaglio di ragionevolezza più penetrante rispetto al mero riscontro di illogicità formale, in cui la qualificazione di invalidità dipende, più che dalla difformità rispetto ad un parametro normativo, dalla devianza rispetto all’obiettivo il cui solo perseguimento legittima il potere della Autorità; – nella stessa prospettiva si colloca la regola per cui il provvedimento è valido (o, comunque secondo altra prospettazione, non è annullabile) quando la difformità dal diritto obiettivo non abbia inciso sulla adeguata sistemazione degli interessi da esso operata (art. 21 octies, II comma, L. 241/90, che attribuisce alla p.a. la possibilità di introdurre nel processo anche fatti non dedotti nell’atto o versati nel procedimento per dimostrare che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso); – l’art. 10 bis della legge sul procedimento, nel caso di procedimenti ad istanza di parte, imponendo alla p.a. di preavvisare il privato di tutti i possibili motivi di reiezione dell’istanza, ha consentito al processo di giovarsi della estensione del contraddittorio procedimentale a tutti i profili della disciplina del rapporto; – l’iscrizione tra i valori giuridici ordinanti del principio di concentrazione e di ragionevole durata (art. 111 cost.) osta a che una controversia sulla medesima pretesa sostanziale possa essere frazionata in più giudizi di merito in spregio al diritto di difesa ed alle esigenze di efficiente impiego delle risorse della giustizia; – la codificata possibilità per il giudice amministrativo di accertare la fondatezza dell’istanza del privato nell’ambito del giudizio sul silenzio è stata salutata come una conferma delle ricerche più avanzate su oggetto e ruolo del processo (l’art. 2 comma 5 della l. 241/1990, ribadito dall’art. 31 c.p.a.).

V.5. Ma, senza dubbio, spetta al codice del processo amministrativo il merito di avere abbandonato definitivamente ogni residuo della concezione oggettiva del giudizio amministrativo di annullamento come strumento di controllo dell’azione amministrativa, e di aver consolidato lo spostamento dell’oggetto del giudizio amministrativo dall’atto, teso a vagliarne la legittimità alla stregua dei vizi denunciati in sede di ricorso e con salvezza del riesercizio del potere amministrativo, al rapporto regolato dal medesimo, al fine di scrutinare la fondatezza della pretesa sostanziale azionata, sempre che non vi si frapponga l’ostacolo dato dalla non sostituibilità di attività discrezionali riservate alla pubblica amministrazione (così l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, 23 marzo 2011 n. 3; ma alle medesime conclusioni era pervenuta anche una consistente parte della dottrina amministrativistica).

E’, in primo luogo, significativo che, alla formula per la quale la cognizione non poteva esaurire tutti i profili del potere amministrativo (stante la salvezza degli ulteriori atti dell’autorità amministrativa: artt. 45 R.D. 1054/1924 e 26 L. 1043/1971), il codice abbia sostituito il ben diverso divieto di pronunciare su poteri amministrativi non ancora esercitati (art. 34, comma 2), volto soltanto ad impedire la tutela anticipata dell’interesse legittimo.

Ma la nuova “visione” del processo sta, soprattutto, nell’aver radicato tra le attribuzioni del giudice della cognizione il potere, una volta spendibile solo nella successiva sede dell’ottemperanza, di disporre le misure idonee ad assicurare l’attuazione del giudicato e delle pronunce non sospese, ivi compresa la nomina di un commissario ad acta (art. 34 comma 1 lettera e). La previsione, con tutta evidenza, consente di esplicitare “a priori”, ovvero nel dispositivo della sentenza, gli effetti conformativi e ripristinatori da cui discende la regola del rapporto, e non più “a posteriori”, in sede di scrutinio della condotta tenuta dall’amministrazione dopo la sentenza di annullamento; ne consegue la possibilità di concentrare in un solo episodio giurisdizionale tutta quella attività di cognizione che prima doveva necessariamente essere completata in sede di ottemperanza. Le misure attuative, talvolta, saranno limitate alla sola definizione dei modi di riesercizio del potere; altre volte, invece, quando l’accoglimento della questione di legittimità non lasci residuare margine alcuno per soluzioni alternative, potranno spingersi a statuire in via satisfattiva sulla spettanza del provvedimento richiesto; all’occorrenza, con la nomina del commissario, le misure potranno anche essere esecutive e sostitutive (salvo chiedersi, in tal caso, se la nomina differita del commissario segni, come pure è stato suggerito, il limite massimo dell’estensione del giudizio di cognizione, ovvero se il sindacato sulla conformità dell’operato del commissario al contenuto precettivo della sentenza ricada o meno nell’ambito del giudizio di ottemperanza).

V.6. Tale disegno, è bene precisare, non consente certo di ritenere che all’accoglimento del ricorso possa sempre e comunque conseguire la fissazione della regola del caso concreto; ciò sarà consentito solo in presenza di attività vincolata o quando risulti che non residuano ulteriori margini di esercizio della discrezionalità. Il principio, stabilito dall’art. 31, comma 3, deve ritenersi di ordine generale dal momento che l’interesse pretensivo, sia che l’amministrazione rimanga inerte sia che emani un provvedimento espresso di diniego, ha la stessa consistenza e lo stesso bisogno di tutela. Mentre nei casi anzidetti la pronuncia potrà estendersi a tutti gli aspetti del potere determinandone i successivi svolgimenti, ove per contro, nonostante l’operatività degli istituti di concentrazione, permanga un nucleo di valutazioni discrezionali riservate, il giudice, anche nel nuovo assetto, rimane di certo non autorizzato a spostare dal procedimento al processo la sua definizione.

V.7. E’ ben possibile, però, che anche una attività “in limine litis” connotata da discrezionalità possa, a seguito della progressiva concentrazione in giudizio delle questioni rilevanti (ad esempio, mediante il combinato operare di ordinanza propulsiva e motivi aggiunti), risultare, all’esito dello scrutinio del Giudice, oramai “segnata” nel suo sviluppo. Il caso che ci occupa in concreto ne offre un cospicuo esempio.

Se pure non può dirsi attualmente condivisa dalla comunità giuridica l’opinione secondo cui l’amministrazione esaurirebbe con il primo provvedimento di rigetto la propria discrezionalità (è la tesi autorevolmente proposta da quanti interpretano il preavviso di rigetto ex art. 10 bis l. 241/90 come norma obbligante l’amministrazione ad indicare, in sede di preavviso di rigetto e con il finale diniego, tutti i motivi ostativi), essendo dai più riconosciuta (anche dopo un primo annullamento) la possibilità di emettere un nuovo atto di diniego per motivi diversi da quelli indicati, tuttavia, deve ritenersi vincolata l’attività amministrativa successiva al secondo annullamento sulla medesima istanza pretensiva. Quest’ultimo assunto si riallaccia a quell’orientamento pragmatico e ragionevole della giurisprudenza amministrativa secondo il quale, in tali casi, il punto di equilibrio fra gli opposti interessi va determinato imponendo all’amministrazione (dopo un giudicato da cui derivi il dovere o la facoltà di provvedere di nuovo) di esaminare l’affare nella sua interezza, sollevando, una volta per tutte, le questioni che ritenga rilevanti, dopo di ciò non potendo tornare a decidere sfavorevolmente neppure in relazione ai profili non ancora esaminati (cfr. Cons. Stato, V, 134/99; Cons. Stato, VI, 7858/04). Le argomentazioni sopra ampiamente svolte sull’evoluzione del processo consentono di applicare il medesimo principio anche nella consimile ipotesi in cui l’amministrazione venga reinvestita della questione a seguito di “remand” (tecnica cautelare che si caratterizza proprio per rimettere in gioco l’assetto di interessi definiti con l’atto gravato, restituendo quindi all’amministrazione l’intero potere decisionale iniziale).

VI. Acclarata la fondatezza della pretesa del ricorrente ad ottenere il trasferimento di riavvicinamento (non essendo stata evidenziata nel corso del procedimento e del successivo processo alcuna valida causa ostativa), a questo punto, occorre verificare l’ammissibilità di una condanna dell’amministrazione alla sua adozione. Recentemente, il Consiglio di Stato, nella sua più autorevole composizione, ha chiaramente affermato (sia pure in obiter dictum) che il codice del processo ha introdotto, anche in presenza di un provvedimento espresso di rigetto e sempre che non vi osti la sussistenza di profili di discrezionalità amministrativa e tecnica, l’azione di condanna volta ad ottenere l’adozione dell’atto amministrativo richiesto (cfr. Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, 23 marzo 2011 n. 3). Il Collegio, concordando pienamente con l’approdo dell’autorevole consesso, intende offrirne, di seguito, il corredo motivazionale.

VI.1. Ai fini della sua ammissibilità, preliminarmente, va evocato il contesto sistematico dei principi (di ascendenza costituzionale e comunitaria) in materia di pienezza ed effettività della tutela giurisdizionale (richiamati dall’art. 1 c.p.a.).

Il Codice, superando l’assunto della tipicità delle azioni nel processo amministrativo (peraltro già messo in discussione dalla giurisprudenza), prefigura un sistema “aperto” di tutele, in cui sono ammesse pronunce dichiarative (art. 31), costitutive (art. 29), condannatorie (art. 30). Per tale via, finalmente anche per il processo amministrativo, si invera la garanzia costituzionale (art. 24 cost.) che, riconoscendo la giuridicità del potere d’azione e la sua autonomia rispetto alla situazione giuridica sostanziale alla quale pure è correlata, preclude al legislatore di rendere impossibile o comunque difficoltosa la tutela delle posizioni soggettive manovrando la disciplina del processo. Garanzia, sul cui fondamento, la dottrina processualcivilistica ha da tempo tratto il corollario del superamento di un sistema rigido di rimedi tipici in favore di un principio di generale azionabilità degli interessi protetti, con tutti i mezzi dall’ordinamento consentiti. Il richiamo (contenuto nel codice) all’esigenza di una tutela piena ed effettiva, in tal senso, conferma che anche il giudice amministrativo è dotato di tutti i poteri necessari alla soddisfazione dei bisogni differenziati. Se l’effettività della tutela giurisdizionale è la capacità del processo di far conseguire i medesimi risultati garantiti dalla sfera sostanziale, anche l’interesse legittimo abbisogna della predisposizione dei rimedi idonei a garantire il conseguimento dell’utilità “primaria” specificatamente oggetto dell’aspettativa riconosciuta dall’ordinamento.

L’allargamento degli strumenti di tutela posti a disposizione del giudice amministrativo, del resto, oltre a confermare il rango paritario riconosciuto più volte dalla Consulta all’intesse legittimo, è coerente con la “preferenza” ordinamentale per la tutela specifica fin quando è possibile. La giurisdizione amministrativa, sorta storicamente a tutela di posizioni soggettive di appartenenza, era intrinsecamente contrassegnata dalla capacità di rimuovere alla radice la lesione dell’interesse oppositivo, attraverso la demolizione dell’atto lesivo; ma la stessa, anche negli sviluppi successivi, ha cercato di perpetuare tale sua vocazione (ad apprestare rimedi effettivi) con la teorica dell’effetto conformativo. Tutt’oggi, il principio di preferenza si manifesta nella “pregiudizialità sostanziale” dell’annullamento rispetto alla quantificazione del danno risarcibile (art. 30, III comma, c.p.a.); nell’orientamento giurisprudenziale che assegna priorità al segmento esecutivo conformativo rispetto al risarcimento di utilità minori (come la chance); nell’art. 124 c.p.a. che introduce una gerarchia tra rimedi nel senso che il risarcimento può essere dovuto solo se non è dichiarata l’inefficacia e disposto il subentro. Anche nel diritto privato, a differenza che negli ordinamenti anglosassoni, non ha avuto seguito la teoria dell’inadempimento efficiente che finisce per considerare il contratto come fonte di obblighi connotati dalla mera facoltà del debitore di estinguere il debito con modalità alternative rispetto alla prestazione pattuita, ribadendosi in dottrina l’opposto principio di priorità dell’adempimento in natura, desumibile dal coordinamento degli articoli 1218 c.c. e 1256 c.c. (nonché ulteriormente confermato dall’articolo 1197 c.c. che non consente al debitore di liberarsi dall’obbligazione eseguendo una prestazione diversa da quella dovuta, anche se di valore uguale o maggiore, senza il consenso del creditore; da ultimo, dalla disciplina della vendita dei beni di consumo).

VI.2. Veniamo ora ai dati testuali offerti dal Codice. L’art. 34 comma 1, lett. c), nel precisare i contenuti della sentenza di condanna, prevede anche l’adozione “delle misure idonee a tutelare la situazione giuridica soggettiva dedotta in giudizio”; in base alla successiva lett. e) il giudice dispone “le misure idonee ad assicurare l’attuazione del giudicato”. Le due previsioni, come si vede, prefigurano un potere di condanna senza restrizione di oggetto, modulabile a seconda del bisogno differenziato emerso in giudizio; ovvero, all’occorrenza, quale sbocco di una tutela restitutoria, ripristinatoria ovvero di adempimento pubblicistico coattivo.

Non è condivisibile l’obiezione secondo cui, non trovando riscontro la possibilità di una pronuncia di condanna all’adozione dell’atto tra le rubricate azioni di cognizione (art. 29, 30, 31), la citata statuizione di condanna atipica prevista dall’art 34 riguarderebbe i soli casi in cui il ricorrente pretenda l’esatto adempimento di obbligazioni rientranti nelle materie devolute alla giurisdizione esclusiva. In disparte il fatto che la disposizioni prevede che qualunque “situazione giuridica soggettiva” (quindi, anche di interesse legittimo) possa essere tutelata mediante la condanna della p.a. ad adottare misure idonee a garantirne la soddisfazione, ci si potrebbe limitare a replicare che la pronuncia di condanna satisfattiva è già correlata ad una corrispondente azione, in quanto l’art. 30 comma 1, configura l’azione di condanna in termini generali senza distinguere fra condanna risarcitoria e condanna satisfattiva (appare, in tal senso, una inversione logica ritenere che le disposizioni contenute nei commi successivi, riferite alla sola condanna al risarcimento del danno, circoscrivano anche l’oggetto del primo comma).

Ma ciò che non convince affatto è l’assunto per cui il tipo di pronuncia che il giudice può adottare ai sensi dell’art. 34 debba essere “supportata” da una corrispondente azione prevista negli articoli precedenti. Sul punto, occorre preliminarmente precisare che non è certo la disciplina del processo la sede nella quale si definiscono e qualificano i bisogni di tutela e le relative forme di tutela (restitutoria, satisfattiva, risarcitoria), bensì la legge sostanziale: non a caso, nel codice di procedura civile, la distinzione delle azioni è tratteggiata ai soli fini del regime della competenza, mentre non esiste una disciplina processuale delle azioni in funzione dei diritti che con essa si fanno valere. Il codice del processo amministrativo, complice la peculiare commistione tra “processo” e “sostanza” tipica degli strumenti di reazione avverso l’azione amministrativa invalida, ha ritenuto opportuno enumerare all’art. 34 quei rimedi che, per quanto si trovino a stretto ridosso della giurisdizione in quanto la loro concreta realizzabilità è assicurata dagli strumenti del processo, sono tuttavia di pertinenza del diritto sostanziale; tale norma, pertanto, nel discernere le forme di tutela che garantiscono il conseguimento delle utilità oggetto dell’aspettativa degli amministrati, rappresenta sul piano sistematico ed ermeneutico il “prius”. L’art. 30 c.p.a., invece, da un parte, disciplina soltanto alcuni aspetti del “veicolo” processuale del rimedio (i termini e la necessaria contestualità dell’azione di condanna ad altra azione, salvo i casi di giurisdizione esclusiva e di condanna al risarcimento), che dunque costituiscono il “posterius”; dall’altro, per quanto rubricato come disciplina dell’azione di condanna, contiene spezzoni di fattispecie sostanziale (in particolare, in tema di risarcimento del danno, pur disinteressandosi del profilo causale o di imputazione soggettiva del danno, vengono dettate alcune disposizioni in punto di danno risarcibile). In definitiva, come si vede, il rapporto tra l’art. 34 e l’art. 30 va propriamente invertito: dalla prima norma si traggono quali rimedi sono a disposizione degli amministrati a tutela dei loro interessi; dalla seconda alcuni specifici e complementari aspetti processuali (oltre che spezzoni di fattispecie sostanziale).

A questo punto, sono chiare anche le ragioni per le quali si ritiene infondato il timore, manifestato autorevolmente in dottrina, secondo cui la riserva di legge apposta dall’art. 111 cost. alla disciplina del processo (non solo amministrativo) non consentirebbe di introdurre per via interpretativa azioni che il legislatore delegato non ha espressamente previsto, deducendone la tassatività dell’elenco delle azioni contenuto nel capo II del titolo III del codice (ciò in disparte la considerazione che la riserva di legge in questione si riferisce esclusivamente alla disciplina del processo).

L’ammissibilità della condanna satisfattiva, sotto altro profilo, non è contraddetta dal già citato divieto di pronuncia su poteri non ancora esercitati previsto dal comma 3 dell’art. 34, essendo quest’ultimo (come abbiamo visto) finalizzato ad evitare domande dirette ad orientare l’azione amministrativa futura (in cui, cioè, l’amministrazione non abbia ancora provveduto).

VI.3. Le conclusioni cui si è giunti sulla portata generale dell’art. 34 c.p.a. consentono di assegnare alle azioni di adempimento tipiche il ruolo non di disposizioni eccezionali ma di esemplificazioni di un’azione ammessa in via generale. In particolare, ci si riferisce: all’art. 124 che menziona espressamente la domanda di conseguire l’aggiudicazione, il cui accoglimento è però condizionato alla dichiarazione di inefficacia del contratto, nei casi in cui questa sia consentita; al potere del giudice di ordinare l’esibizione dei documenti richiesti (art. 116, comma 4); al d.lgs. 198/2009, sulla cosiddetta “class action” contro la pubblica amministrazione, che prevede il potere del giudice di ordinare all’amministrazione soccombente di porre rimedio alla violazione accertata (art. 4).

Non è, poi, priva di significato sistematico anche la circostanza della abrogazione del r.d. 17 agosto 1907 n. 642, da cui consegue la rimozione della disposizione (secondo cui “l’esecuzione delle decisioni si fa in via amministrativa, eccetto che per la parte relativa alle spese”: art. 88) dalla quale pure si argomentava che il giudice amministrativo non avesse un potere generale di condanna.

VI.4. Poiché l’adozione della condanna implica la definizione dell’intero rapporto sostanziale, il giudice incontrerà gli stessi limiti già sopra sottolineati: soltanto quando si tratti di attività vincolata o quando risulti che non residuano ulteriori margini di discrezionalità, il Giudice potrà spingersi alla verifica dell’esistenza in concreto dei presupposti e requisiti vincolati in presenza dei quali il ricorrente può ottenere il provvedimento richiesto.

Circa i profili istruttori, la cognizione estesa ai profili dell’esercizio del potere che, non avendo costituito oggetto del provvedimento, non hanno potuto essere censurati nel ricorso, sarà possibile sempre che il ricorrente abbia allegato in giudizio gli elementi di fatto atti a dimostrare la fondatezza della pretesa.

VI.5. L’adempimento dell’ordine del Giudice non esclude, è utile precisare, la modifica dell’assetto di interessi fissato dalla sentenza purché motivata in ragione di specifici fatti sopravvenuti (esemplificativamente, la cessazione della necessità di assistenza, sopravvenute e preminenti esigenze organizzative).

VII. Le spese di lite seguono la soccombenza come di norma.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia (Sezione Terza), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto:

ACCOGLIE il ricorso e, per l’effetto, annulla i provvedimenti indicati in epigrafe;

ORDINA all’amministrazione di disporre il trasferimento del ricorrente presso qualsiasi ufficio o reparto della Polizia di Stato la cui prossimità rispetto alla città di ORTONA sia tale da consentire allo stesso l’assistenza nei confronti del genitore,

CONDANNA l’amministrazione resistente al pagamento delle spese di lite in favore del ricorrente che si liquida in € 1.200,00, oltre IVA e CPA come per legge.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Milano nella camera di consiglio del giorno 2 marzo 2011 con l’intervento dei magistrati:

Domenico Giordano, Presidente

Stefano Celeste Cozzi, Referendario

Dario Simeoli, Referendario, Estensore

L’ESTENSORE IL PRESIDENTE

DEPOSITATA IN SEGRETERIA

Il 08/06/2011

fonte www.altalex.com